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19 – Anni di scuola – Gli studenti fanno il ‘68


numero 28 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk –agosto 2023


Ci sono quelli che dicono: Ah, i tempi passati! E quali sarebbero i tempi passati? Quando si lavorava 12-14 ore al giorno? Quando per andare a Roma da Castel Madama bisognava scendere alla stazione con l’autobus? E i vagoni erano carri-merci riciclati? Quando, proclamato per la prima volta lo sciopero della Scuola, ti mandava a chiamare il maresciallo dei carabinieri e ti diceva di stare attento che ti giocavi la carriera? Quando facevo l’insegnante precario e, ai fini della carriera, tre anni contavano per uno? Tempi più brutti quelli passati…

Avevo fatto il concorso per entrare in ruolo alle superiori (cattedra italiano e storia) e l’avevo vinto. Delle quattro province da indicare, oltre Roma avevo chiesto Livorno, dove risiedeva una mia sorella; e lì fui mandato: all’Istituto tecnico Industriale, fiore all’occhiello della città. Gli allievi avevano la divisa azzurra, se meccanici, o bianca, se chimici. A me la segreteria, sapendo che venivo da Roma, aveva fatto un orario ad hoc. Iniziavo il lunedì alle 12,00 (quinta e sesta ora); chiudevo il venerdì alle 11,00. Mio cognato mi accompagnava al treno per Roma, che transitava alle 11 e mezza.

In quel tempo Livorno era una città rossa davvero: il PCI e il PSIUP (il mio partito) avevano la maggioranza al Comune e quindi avevano sindaco e vice-sindaco, mio compagno di partito. Di scioperi politici se ne facevano diversi e, come per incanto, in pochi minuti la città si trovava a far sciopero per le strade. Era una fiumana.

Con gli studenti il rapporto era buono: li rispettavo, ero rispettato; con gli insegnanti un poco meno: i prof ingegneri avevano, come si dice, la puzza sotto il naso; e io pensavo: “Ma allora, perché fanno i professori e non gli ingegneri?!” Erano comunque tempi un po’ strani: alunni, Presidenza, Professori e Segreteria sapevano tutto di me, venuto da Roma: famiglia e appartenenza politica.

Una differenza fra il clima scolastico di Roma e quello di Livorno eccola: alle vacanze di Natale avevo chiesto se l’ultimo giorno di scuola ci sarebbe stata la lectio brevis; con un sorriso la segretaria mi rispose: “Mica siamo a Roma!”.

Dopo l’anno trascorso a Livorno, ero passato all’industriale Giovanni XXIII di Tor Sapienza (1966); ero tornato a casa. Ma fu un anno duro, perché un po’ gli insegnanti di lettere erano snobbati dagli ingegneri e perciò anche dagli alunni, un po’ perché gli alunni tutti maschi usavano nei miei confronti maniere poco buone: se mi rivolgevo alla lavagna (e qualche volta dovevo farlo) fioccavano rutti e sghignazzi. Difficile trovare consensi con Foscolo e Leopardi. Ingaggio un confronto aspro ma deciso: le belle lettere cercherò di infilargliele in testa. (O al culo, bocciandoli?).

Di quell’anno però mi sono rimasti due fatti che mi hanno allargato il cuore qualche tempo dopo. Un giorno venne a trovarmi nel nuovo istituto dove insegnavo, il Botticelli, il soldato (era in divisa militare) Bedorin: era venuto a ringraziarmi per il mio lavoro svolto con la sua classe al Giovanni XXIII, la mia presenza positiva nella sua vita l’aveva scoperta soltanto qualche tempo dopo; e il Bedorin era stato uno dei più scalmanati della ciurma! Un’altra volta mi capita di incontrare nell’atrio del Botticelli un altro studente del Giovanni XXIII: era un mio nuovo collega, che mi disse di ricordarsi di me con gratitudine.

manifestazione a scuola

Intanto, al Botticelli era entrato il ’68: la pressione degli studenti aveva ottenuto il diritto alle Assemblee e lo studio di gruppo nelle classi. Però le assemblee dapprima affollate furono poi disertate da tanti studenti che se ne andavano a spasso, mentre spesso i “lavori di gruppo” ricadevano soltanto sulle fatiche di qualcuno e il parassitismo di altri, al riparo della richiesta del “sei politico”. Una realtà che va spiegata un po’.

I giovani fanno il ’68, voglio dire i giovani studenti, io ho 33 anni e li osservo con interessata curiosità; nelle mie classi c’è fermento e scontento del nostro vecchio modo di fare scuola, noi insegnanti incarniamo vecchia cultura, cultura borghese, ci incolpano. Ma il fatto è che incolpare alcuni colleghi di infondere cultura borghese mi sembra uno sproposito, siamo persone che lavorano per portare a casa lo stipendio, molti di noi non hanno interesse per la cultura e nemmeno per la scuola; il metodo didattico? Ricordo quello del collega di ragioneria, che mostrandomi un libricino a copertina nera e costola rossa (come i vecchi quaderni di bella copia di quand’ero ragazzo) mi chiama da parte una mattina, mi squaderna… il quaderno e mi dice: “A Todì, io sto a finì il programma che c’ho qua dentro e co’ la coscienza sto a posto! Loro facessero il ’68”…

Noi, professori di sinistra, siamo più coinvolti, ma troviamo le proposte di rinnovamento, anzi di rivoluzione, proposte di un modo alternativo di stare a scuola abbastanza nebulose e di troppo facile attuazione per essere realistiche: basta con la cattedra, basta alle “spiegazioni tradizionali” (?) e alle interrogazioni col voto. Si faranno studi e lavori di gruppo e a tutti il “sei politico”. Ma a noi professori il Preside in un collegio docenti, convocato ad hoc, ha impartito chiare direttive di sabotaggio: partecipare alle riunioni di classe, dimostrando attenzione, ma osservare intanto il comportamento dei singoli, per tenerne conto nel giudizio di fine-anno (autoritarismo spionistico).

corteo di studenti delle superiori

In una delle mie classi, in cui faccio assistenza durante i lavori di gruppo, tra i tre o quattro più in vista quanto a propositi di rivolta nasce un incontro che presto diventa scontro su quale argomento impostare il primo lavoro di gruppo (Il Manifesto del Partito Comunista di Marx o, addirittura, I capisaldi del Marxismo); io timidamente faccio presente che il materiale è troppo impegnativo, digiuna come è la classe di politica e di conoscenze specifiche delle opere di Marx. “E allora?”, mi chiedono alcuni studenti, fra la diffidenza dei tre o quattro sopraddetti. Allora propongo di fare un confronto fra diversi modi di fare scuola, per esempio il nostro e quello di Don Milani, la Scuola di Barbiana. Lo so che ascoltandomi cadranno dalle nuvole (Don Milani, chi era costui?), ma è un argomento che può essere più alla portata delle loro esperienze scolastiche e più in linea con le loro rivendicazioni politiche. Io li aiuterò nella ricerca delle informazioni e nella formazione dei gruppi. Conoscendo gli studenti, si possono costituire quattro o cinque gruppi di sei studenti ciascuno, comprendendo ogni gruppo chi lo organizza, chi scrive appunti, chi ordina il materiale, ecc. La mia proposta viene accolta fra i mugugni dei capi.

Quanto al sei politico, dico che si rischia l’appiattimento della classe, equiparando chi si impegna più e chi meno, facilitando lo scarica-impegni sui cosiddetti secchioni, mentre lo studio e il lavoro di gruppo devono aiutare la crescita di ognuno secondo le sue possibilità. L’esperienza durò qualche giorno, impegnando, oltre agli studenti, noi insegnanti di Italiano e Storia prevalentemente; gli altri docenti perlopiù aspettavano, e forse speravano, che si tornasse all’antico.

Gualtiero

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