newsletter: A parole

Come abbiamo distrutto la Città di Dio


numero 9 – Newsletter dell’Associazione Arcoiristrekk – giugno 2020


il cantiere attorno all’ultima fornace

La genesi del libro:

“Sono convinto che il collegamento tra la forma della moderna Città di Dio e la mente e la cultura dei suoi abitanti sia immediato e automatico: eccoli tutti (quasi tutti) qui, che marciano sullo Stradone la mattina presto […], mentre il traffico a scendere da ovest verso il centro si intensifica e quasi si blocca […]. Tutti soffrono della città che hanno contribuito a costruire […] e adesso ce la teniamo: è l’hardware che stiamo lasciando ai nostri figli, che hanno un loro diverso e per certi versi non-comprensibile software mentale. Penseranno diversamente ma vivranno nelle nostre medesime stanze […].

fornaciari della valle dell’Inferno

Eppure qui nella Sacca hanno vissuto uomini e donne che veramente credevano in un mondo diverso e comunista: questa cosa non l’ho capita subito, ma solo dopo anni di applicazione crescente alla decifrazione dei segni che denotano l’enclave urbana in cui vivo. Da qui, avendo tempo libero, il mio progetto di ricostruzione/restituzione, storica e non. Giro per le strade, vado nei bar, all’ex centro sociale, in biblioteca, parlo con la gente – soprattutto ascolto -, leggo testi, vecchie ricerche sociologiche, accumulo le poche immagini, nomi e testimonianze che riesco a trovare: nessun metodo, niente di particolarmente lucido, ma almeno sono attivo e, secondo l’app del mio smart-phone, cammino in media tre chilometri al giorno.” (pp.19-20).

La catastrofe del paesaggio urbano:

“Durante le mie sortite cerco eventi visivi che mi sia possibile approvare: come farsi piacere un mucchietto di maioliche frantumate sfuggite da uno dei sacchi di macerie (ristrutturazione di appartamento in corso) accatastati a lato di un portone? Non so dire, hanno dell’irrimediabile, del catastrofico […]. la conformazione caotica […] non mi dà tregua, aiutata dal contributo decisivo di umani dallo sguardo indifferente, dediti alla produzione di rifiuti, di incuria, di continui rabberci, cultori della scarsa manutenzione, della riparazione alla bell’e meglio, mai una ri-pintura che ci azzecchi col colore sotto-stante, mai una toppa di asfalto ben fatta, mai un cartellone non-abusivo, mai strisce pedonali non scolorite, mai mai. “ (pp. 98-99).

la fornace Veschi e il Cupolone

La consapevolezza amara:

“[…] so che lo Stradone era evitabile, so che poteva essere pianificato e realizzato con più cura e intelligenza e senso della forma, attenendosi alla nozione non solo di cos’è una città contemporanea, ma anche soltanto una città rinascimentale. E so che tutto ciò che posso vedere dal mio settimo piano deriva in modo diretto dalla brutalità di quella originaria spinta vitale post-bellica e post-fascistica, la stessa che mi ha generato. “ (p. 292).

Dal Terzo Paesaggio al centro commerciale:

Da queste parti il Terzo Paesaggio era uno schifo che si declinava essenzialmente in canneti foltissimi, gruppi di ailanti e robinie, umani senza-tetto e animali senza nome: questa era tutta la biodiversità presente nell’area d’abbandono storico all’imbocco della Sacca. […] si capiva che tutti erano segretamente contenti che si facesse qualcosa per distaccarsi una volta per sempre dal passato, sia pure costruendo muri in falso tufo, rivestendo edifici in falso travertino, declinando linguaggi falsamente contemporanei, ma con vere scale mobili, e però messe a cazzo” (p. 443).

Citazioni tratte da Lo stradone, Francesco Pecoraro, Ponte alle Grazie, 2019, recensito in questo numero.

Marina M.

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